Prima che fosse trascorsa la mezz'ora della mia penitenza, sentii sonare le cinque. Cessarono il lavoro e tutte andarono in refettorio per prendere il caffè. Mi arrischiai a scendere. Era notte e lasciandomi scivolare in un canto, mi sedei sull'impiantito. Era sul punto di svanire l'incantesimo che mi aveva sostenuto fino a quel momento. Sopraggiunse la reazione e il dolore che s'impossessò di me fu così opprimente, che mi abbandonai ad esso, col viso rivolto verso terra. Nulla mi aiutava. Nessuno mi udiva ed Elena Burns non era vicina a me. Giungendo a Lowood avevo risolto di esser così buona, così sottomessa, da conquistare simpatie e amicizie. Avevo già fatto progressi evidenti e la mattina mi avevano dato il posto di capo-classe; la signorina Miller mi aveva caldamente complimentata, la signorina Temple mi aveva accordato un sorriso d'approvazione e s'era impegnata a insegnarmi il disegno e a farmi insegnare il francese, se continuavo a progredire per due mesi. Ero amata dalle mie compagne; quelle della mia età mi trattavano da eguale, le grandi non mi facevano disperare; e ora stavo per essere umiliata di nuovo, di nuovo respinta, senza sapere se avrei mai potuto rialzarmi. — No, non potrei, — pensavo e mi misi a desiderare ardentemente la morte. Mentre formulavo questo desiderio in mezzo ai singhiozzi, qualcuna si avvicinò a me; mi scossi. Elena Burns mi era accanto e mi portava il caffè e il pane. — Mangiate qualcosa, — mi disse. Respinsi quello che mi offriva, sentendo che nel mio stato anche un sorso di caffè mi avrebbe fatto male. Ella mi guardò forse meravigliata; benché mi sforzassi, non potevo dominare l'agitazione e continuavo a piangere. Ella si sedè accanto a me, in silenzio. Io fui la prima a parlare. — Elena, — le dissi, — perché state con una che tutti credono bugiarda? — Tutti, Jane? Appena ottanta persone vi hanno sentito accusare e il mondo ne contiene milioni e milioni! — Che cosa m'importano quei milioni, le ottanta che conosco mi disprezzano. — Jane, v'ingannate; è probabile che nessuna delle educande vi disprezzi, né vi odii; molte invece vi compiangono, ne sono sicura. — Come possono compiangermi dopo quello che ha detto il signor Bockelhurst? — Egli non è Dio, non è un uomo che riscuota fiducia. Nessuno qui gli vuol bene, perché non ha fatto mai nulla per meritare il nostro affetto. Se vi avesse accordato speciali favori, avreste trovato intorno a voi delle nemiche, palesi o occulte. Ma dopo quello che è accaduto, quasi tutte vorrebbero attestarvi la loro simpatia, se potessero. Maestre e alunne potranno guardarvi freddamente per un giorno o due, ma in cuore hanno sentimenti di amicizia e ve li manifesteranno con più effusione tra qualche tempo. Del resto, Jane..... — Ebbene, Elena? — dissi mettendo le mani nelle sue. Ella strinse dolcemente le mie dita per riscaldarle, e continuò: — Se il mondo intero vi odiasse e vi credesse colpevole, ma la vostra coscienza vi approvasse, vi credereste forse priva di un'amica? — No, ma questo non basta per me. Se non mi sento amata, preferisco morire. Non posso esser sola ed odiata. Elena, vedete, per ottenere un vero affetto da voi, dalla signorina Temple e da tutti quelli cui voglio sinceramente bene, mi sottoporrei ad aver un braccio rotto, ad esser rotolata per terra da un toro, a stare dietro un cavallo furioso che mi desse un calcio nel petto. — Zitta, Jane! Voi fate troppo conto dell'affetto terrestre; siete troppo impressionabile, troppo ardente. La mano sovrana, che ha creato il vostro corpo, vi ha infuso un soffio vitale, ha posto per voi delle risorse fuori di voi stessa e delle creature deboli come voi. Al di là di questa terra vi è un regno invisibile; al disopra di questo mondo abitato dagli uomini, ve n'è uno abitato dagli spiriti, e questi spiriti vegliano su di noi, e se moriamo oppressi dalla vergogna e dal disprezzo, ci riconoscono innocenti, se tali siamo. Io so che siete innocente delle colpe attribuitevi dal direttore, perché ho riconosciuto nei vostri occhi ardenti e sulla vostra fronte pura, un'anima sincera. Iddio, Iddio, che aspetta la separazione della nostra carne e del nostro spirito, ci incoronerà dopo la morte e ci concederà piena ricompensa. Perché lasciarci abbattere dalla sventura, se la vita è così corta e la morte è il principio della felicità? Tacevo; Elena mi aveva calmata, ma la calma che avevami infusa era piena di tristezza. Quando ella ebbe terminato di parlare, respirava affannosamente e una tosse secca le scuoteva il petto. Dimenticai allora per un momento il mio stato per abbandonarmi a una vaga inquietudine. Reclinando la testa sulla spalla d'Elena, le cinsi con un braccio la vita. Ella mi trasse a sé, e restammo così in silenzio. Un'altra persona entrò nella sala, e siccome la luna aveva squarciate le nubi e penetrava dalle finestre, ci accorgemmo che era la signorina Temple. — Venivo a prendervi, Jane — disse la direttrice. — Debbo parlarvi in camera mia, e siccome è qui Elena, può venire con noi. Ci alzammo per seguirla, e dopo aver traversati diversi corridoi e salito una scala, entrammo nel quartiere della direttrice. Mi parve allegro, e vi era acceso un bel fuoco. La signorina Temple disse a Elena di sdraiarsi in una poltrona posta a fianco di lei; ella ne prese un'altra e mi attrasse a sé. — Vi siete consolata? — mi domandò guardandomi in faccia. — Avete sfogato il vostro cruccio? — Credo di non potermi consolare mai. — Perché? — Perché sono stata ingiustamente accusata dinanzi a tutti, e voi stessa, signora, mi credete colpevole. — Noi crederemo ciò che vedremo e ci formeremo un'opinione sulla vostra condotta, bambina mia. Continuate ad esser buona, e mi contenterete. — Davvero, signorina Temple? — Sì, — rispose cingendomi con un braccio. — E ora ditemi chi è quella signora, che il pastore chiama la vostra benefattrice. — È la signora Reed, la moglie di mio zio; egli è morto e mi ha lasciata affidata a lei. — Ella non vi ha dunque liberamente adottata? — No, la signora Reed era in collera per questo, ma mio zio, per quanto mi ha detto spesso la servitù, le aveva fatto promettere, morendo, di tenermi sempre presso di sé. — Ebbene, Jane, se lo sapete o non lo sapete, vi dirò che quando un colpevole è accusato, gli si lascia sempre prender la parola in propria difesa. Siete stata incolpata di un vizio che non avete; difendetevi come sapete, dite tutto quello che vi suggerisce la mente, ma non aggiungete, non esagerate. Stabilii nel mio cuore di esser mite ed esatta, e dopo aver riflettuto un poco per dar ordine alle mie idee, mi diedi a narrare la storia della mia infanzia triste. Ero sfinita dalla commozione; così le mie parole furono più dolci che quando avevo altre volte toccato quell'argomento doloroso. Rammentando ciò che Elena mi aveva detto sull'indulgenza, cercai di metter meno fiele nel racconto, il quale, fatto così, era più verosimile. Quanto più andavo avanti, tanto più sentivo che la signorina Temple mi prestava piena fede. Nel corso del racconto avevo nominato il signor Lloyd, che mi aveva curata. Quando ebbi terminato, la signorina Temple mi fissò per alcuni minuti e poi disse: — Conosco il signor Lloyd, gli scriverò; se la sua risposta è conforme a ciò che avete detto, sarete scagionata da ogni accusa. In quanto a me, Jane, fin d'ora vi credo innocente. Mi abbracciò e fecemi rimanere presso di sé. Mi sentii consolata, perché provavo un piacere infantile nel contemplare il suo volto, le sue vesti, i suoi gioielli, la sua fronte pura, i suoi lucidi capelli, i suoi occhi scintillanti. Volgendosi verso Elena, le disse: — Come state? Oggi avete tossito tanto. — Non tanto come al solito, signora. E i dolori al petto? — Li sento meno. La signorina Temple si alzò, tastò il polso di Elena, poi, tornando al suo posto, la sentii sospirare. Ella rimase pensierosa un momento, poi, scuotendosi, disse allegramente: — Siete mie ospiti stasera, e come tali voglio trattarvi. Nel dir così suonò, e, alla serva che entrava, disse: — Barbara, non ho preso ancora il tè; portate il vassoio con tre tazze. Il vassoio fu portato, e io mi sentii contenta vedendo le tazze e la teiera collocate su una piccola tavola accanto al fuoco. Come mi parve delizioso il profumo del tè, dei crostini col burro. Ma come erano pochi questi, e io aveva tanta fame! La signorina Temple si accorse pure che i crostini erano scarsi e disse a Barbara di portarne altri. La serva uscì e tornò subito. — Signorina, — disse, — la signora Harden assicura che ne ha mandato la solita quantità. La Harden era la dispensiera ed era fatta sullo stesso stampo del signor Bockelhurst. — Benissimo, — rispose la signorina Temple, — ne faremo di meno. Nel momento che la serva usciva, aggiunse sorridendo: — Per fortuna oggi posso supplire a quello che manca. Ella invitò Elena e me ad avvicinarci alla tavola, collocò dinanzi a noi le tazze e i crostini, poi tolse da un cassetto un maestoso pan pepato, ravvolto con cura, e la sua mano generosa ce ne tagliò delle fette grosse. Quella sera ci parve di nutrirci di nettare e di ambrosia. Il sorriso di soddisfazione col quale la signorina Temple ci guardava mangiare con voracità i cibi delicati che ci dava, aumentava la nostra contentezza. Dopo preso il tè, la direttrice ci ricondusse accanto al fuoco, e ognuna di noi si sedè ai lati di lei. Una conversazione s'impegnò fra Elena e la signorina Temple. Non era piccolo privilegio di essere ammessa ad ascoltarla. La direttrice era sempre serena nell'aspetto, nobile nel portamento, ed esatta nel linguaggio, così che evitava qualsiasi esagerazione. Nell'ascoltarla, si provava non solo un vivo piacere, ma anche un profondo rispetto. Ciò avvenne a me pure; in quanto a Elena, quella ragazza destò in me l'ammirazione. La cena riconfortante, il fuoco allegro, la presenza e la bontà squisita della sua direttrice, o forse qualche cosa di più, che avvenne nell'anima eletta della mia compagna, destò tutte le facoltà di lei; prima splendettero sulle guance della ragazza, coprendole di un vivo incarnato, poi le brillarono negli occhi raggianti dolcemente, che acquistarono a un tratto una bellezza più originale di quella della signorina Temple, una bellezza prodotta dalla forza del pensiero e dallo splendore dell'anima. Quell'anima era là sulle labbra di lei e le parole sgorgavano da non so quale sorgente misteriosa. Una ragazza di quattordici anni ha un cuore assai grande, assai vigoroso per contenere la sorgente, incessantemente agitata, di un'eloquenza pura, piena e fervida? Questa era la caratteristica dei discorsi di Elena per tutta quella sera, e che rammenterò sempre; pareva che lo spirito di lei volesse vivere in un certo periodo di tempo tutta una lunga esistenza. Elena e la direttrice parlarono di cose che non sapevo, di popoli e di tempi passati, di lontane contrade, di segreti della natura scoperti o indovinati. Parlarono pure di diversi libri; quanti ne avevano letti! quante cognizioni avevano mai! I nomi degli autori francesi parevano loro familiari. Ma la mia meraviglia giunse al colmo quando la signorina Temple domandò a Elena se trovava tempo di ripassare il latino insegnatole da un padre, e, prendendo un libro nella sua biblioteca, le disse di leggere e tradurre una pagina di Virgilio. Elena obbedì, e la mia ammirazione cresceva man mano che ella traduceva. Quando ebbe terminato la campana annunziò che era tempo di andare a letto. La signorina Temple ci abbracciò, dicendoci: — Iddio vi benedica, figlie mie! Trattenne Elena stretta al cuore un poco più di me, se ne staccò più difficilmente e la seguì con l'occhio, e per lei sospirò e si rasciugò una lagrima. Entrando nel dormitorio, udimmo la voce della signorina Scatcherd. Esaminava i cassetti ed era appunto a quello di Elena, che fu subito sgridata. La maestra le disse che il giorno dopo le avrebbe appuntato alla spalla una mezza dozzina di oggetti spiegati. — È vero che il mio cassetto era in un disordine vergognoso, — mi disse Elena a bassa voce, — volevo rassettarlo e non ci ho pensato più. Il giorno dopo la signorina Scatcherd scrisse a grosse lettere su un pezzo di carta la parola: "Sciatta" e l'appuntò sulla fronte d'Elena, su quella fronte buona, eletta, dolce, intelligente. La ragazza tollerò la punizione fino alla sera con grande pazienza, senza provare uno scatto di collera. Quando la signorina Scatcherd uscì dopo la lezione della sera, corsi a strappare la benda dalla fronte di Elena, e la gettai nel fuoco. La rabbia, di cui ella era incapace, mi aveva dilaniata tutto il giorno, e lagrime ardenti mi erano scorse continuamente sulle guance, perché lo spettacolo di quella muta rassegnazione mi procurava un dolore immenso. Una settimana circa dopo i fatti che ho narrato, la signorina Temple ricevè una risposta dal signor Lloyd, al quale aveva scritto. Pare che la testimonianza di lui si accordasse col mio racconto. La direttrice adunò allora la scuola e dichiarò che aveva assunto informazioni sulle colpe di cui era stata accusata Jane Eyre dal signor Bockelhurst, e che era felice di poterla dichiarare innocente di ogni imputazione. Le maestre mi strinsero la mano e mi baciarono, e un mormorio di soddisfazione corse fra le file delle mie compagne. Liberata da quell'oppressione, stabilii di lavorare con nuova lena e di aprirmi la via a traverso ogni ostacolo. Studiai molto e l'esito fu eguale agli sforzi fatti. La mia memoria, che non era tenace, migliorò con la pratica, l'esercizio aguzzò la mia mente e dopo alcune settimane fui promossa di classe. Dopo due mesi mi fu concesso di cominciare il francese e il disegno. Quello stesso giorno imparai due tempi del verbo étre e disegnai la prima casetta, le cui mura erano anche più inclinate del famoso campanile di Pisa. Quella sera, andando a letto, dimenticai di prepararmi, con la fantasia di Barmecide, la cena di patate fritte ben calde, o di pane bianco e di latte munto allora, che solevo concedere al mio stomaco vuoto. Mi contentai, invece del cibo, di guardare i mille quadri ideali, di cui la mia fantasia popolava le tenebre, e mi pareva che quei quadri fossero tutti opera mia. Vedevo case, alberi, rocce, rovine pittoresche, gruppi di vacche e poi farfalle che svolazzavano sui bocci di rose, uccelli che beccavano ciliege mature, e nidi di sgriccioli, con le uova simili a perle, e coperti di giovani tralci di edera. Pensavo anche se un giorno sarei stata capace di tradurre un certo libriccino francese, che la signora Pierrot mi aveva fatto vedere, e prima di risolvere questo problema, mi addormentai. Salomone ha avuto ragione di dire: "Val meglio un desinare d'erbe, che un bove nella stalla e l'odio." Non avrei cambiato Lowood con tutte le sue privazioni per Gateshead col suo lusso. |