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Jane Eyre.  Charlotte Brontë
Capitolo 21.
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Che cosa strana sono mai i presentimenti, le simpatie e anche i presagi! Tutti insieme formano un mistero di cui l'uomo non ha peranco trovata la chiave.

Non ho mai riso dei presentimenti in vita mia, perché ne ho avuto certuni stranissimi. Credo che le simpatie esistano e si manifestino fra parenti assenti da lungo tempo ed estranei fra loro, affermando, nonostante la distanza, l'unità della sorgente da cui ognuno di essi deriva.

I presagi poi potrebbero essere simpatie fra la natura e l'uomo.

Quando avevo sei anni udii Bessie Leaven, che diceva a Marta Abbot di aver sognato un bimbo e che quel sogno era presagio di disgrazia per lei o per i suoi.

Questa credenza sarebbesi probabilmente cancellata dal mio pensiero, senza una circostanza che ve la fissò indelebilmente: Bessie il giorno dopo fu chiamata al capezzale della sua sorellina morente.

Da qualche giorno pensavo sempre a quel fatto, perché da una settimana avevo sognato ogni notte un bimbo: ora lo addormentavo fra le braccia, ora lo cullavo in grembo, talvolta lo guardavo mentre si baloccava con le margherite del prato o si bagnava le mani in un fosso. La notte seguente invece rideva; qualche volta afferravami per la sottana, o correva lungi da me; ma sotto una forma o sotto un'altra quella visione mi perseguitò per sette notti consecutive.

Quella persistenza di una stessa idea, quel ritorno continuo della stessa immagine mi turbava e rendevami nervosa, quando si avvicinava l'ora di andare a letto.

Anche la notte in cui udii il terribile grido ero in compagnia di quel fantasma di bambino, e nel pomeriggio del giorno seguente vennero ad avvertirmi che una persona mi aspettava nella stanza della signora Fairfax.

Vi andai e vi trovai un uomo che mi parve un servitore di una casa signorile; portava il lutto, e il cappello, che aveva fra mano, era circondato di velo.

— Credo, signorina, che mi riconoscerete difficilmente, — mi disse alzandosi. — Mi chiamo Leaven, ed ero cocchiere della signora Reed quando abitavate a Gateshead; sono ancora alla villa.

— Oh! Roberto, come state? Non vi ho dimenticato davvero; mi rammento che mi facevate montare il pony di Georgiana. E come sta Bessie, perché voi avete sposata Bessie.

— Sì, signorina, mia moglie sta bene, vi ringrazio, e due mesi fa mi ha dato un altro bimbo; ne abbiamo tre ora, e tutti sani.

— E come stanno alla villa, Roberto?

— Sono dolente di non potervi dare migliori notizie, signorina; non vanno bene le cose, e la famiglia è stata colpita da una grave sventura.

— Spero che non sia morto nessuno, — dissi, guardando i suoi abiti. Egli fissò il crespo del suo cappello e rispose:

— Ieri fanno otto giorni che il signor John è morto nel suo quartiere a Londra.

— Il signor John?

— Sì.

— E come ha potuto sua madre resistere a questo colpo?

— Eh! signorina Eyre, non è una disgrazia da nulla, ma faceva una vita sciagurata; negli ultimi tre anni si è condotto male e ne ha fatto di tutti i colori; la sua morte è stata orribile.

— Avevo saputo da Bessie che non si conduceva bene.

— Bene! non poteva fare di peggio; sprecava denaro e salute in mezzo a donne pessime e ad uomini pericolosi, faceva debiti e fu messo in prigione. Due volte la madre andò in suo aiuto, ma appena libero tornava ai compagni e ai vizii. Non aveva la testa a posto e i birbanti con i quali viveva non facevano altro che ingannarlo. Tre settimane fa circa, venne a Gateshead e disse alla signora di affidargli tutto il patrimonio. I suoi beni erano già stati molto compromessi dalle stravaganze del figlio. Partì e poco dopo si seppe che era morto, Dio sa come. Si dice che si sia ucciso.

Tacqui, perché quella notizia mi colpì d'orrore. Roberto continuò:

— Anche la signora è stata molto ammalata, non ha avuto la forza di sopportare questo dolore. E poi la perdita del patrimonio e il timore della povertà l'avevano già affranta; la morte improvvisa del signor John è stata l'ultimo colpo. Per tre giorni non ha parlato, martedì poi stava un po' meglio e accennava sempre a mia moglie di voler parlarvi; però soltanto iermattina Bessie l'ha intesa balbettare il vostro nome, perché finalmente ha potuto dire queste parole: "Conducete Jane, andate a cercare Jane Eyre, perché voglio parlarle." Bessie non era sicura che avesse la testa a posto e desiderasse davvero di parlarvi; ma ha raccontato alle signorine quello che era accaduto ed ha consigliato loro di farvi chiamare. Esse da principio non hanno voluto, ma poiché la loro madre diveniva sempre più inquieta e continuava a dire: "Jane, Jane" finalmente hanno acconsentito. Sono partito ieri da Gateshead e se siete pronta, signorina, vorrei condurvi via domattina presto.

— Sì, Roberto, sarò pronta, perché credo sia mio dovere di venire.

— Suppongo, signorina, che dovrete chiedere il permesso, e Bessie mi ha detto che non vi sareste rifiutata di venire.

Dopo avere accompagnato Roberto nel tinello ed averlo raccomandato a John e a Leah, andai in cerca del signor Rochester.

Egli non era nelle stanze terrene, né nel cortile, né nelle scuderie; la signora Fairfax mi disse che trovavasi al biliardo con Bianca Ingram.

Andai in quella sala e vi trovai difatti, oltre il signor Rochester e la signora Ingram, le due Eshton con i loro adoratori.

Mi occorse un certo coraggio per disturbare tutta quella gente, che si divertiva a giuocare, ma non potevo ritardare la mia domanda.

Così mi accostai al mio padrone, che era accanto a Bianca Ingram.

Ella si volse e mi guardò sdegnosamente; gli occhi di lei pareva domandassero che cosa voleva quella abbietta creatura, e quando mormorai a bassa voce "signor Rochester" fece un movimento come se volesse ordinarmi di uscire.

Mi rammento dell'aspetto di lei in quel momento; era graziosa e attraentissima; ella indossava una veste da mattina di crespo celeste e nei capelli aveva una sciarpa di velo.

Il giuoco avevala eccitata e l'alterigia offesa non nuoceva all'espressione del suo volto imponente.

— Che cosa vuole da voi quella persona? — domandò al signor Rochester. Questi si volse per vedere chi era quella "persona" e fece una smorfia, strana ed equivoca, e gettando via la stecca mi seguì fuori della sala.

— Ebbene, Jane? — disse appoggiando le spalle alla porta della sala di studio, che aveva chiusa.

— Vi chiedo, signore, di aver la cortesia di darmi una settimana o due di permesso.

— Perché farne? Per andar dove?

— Da una signora malata, che ha mandato a prendermi.

— Chi è questa signora? Dove sta?

— A Gateshead, nella contea di....

— Ma è a cento miglia di qui. Chi può essere questa signora che manda a prender la gente a tanta distanza?

— È la signora Reed.

— Reed di Gateshead? Vi era un signor Reed di Gateshead che era magistrato.

— È la vedova di lui, signore.

— E che cosa avete a fare con lei? Come la conoscete?

— Il signor Reed era mio zio, fratello di mia madre.

— Non me l'avete mai detto; avete sempre asserito invece di non aver parenti.

— Non ne ho infatti, signore, che vogliano riconoscermi. Il signor Reed è morto e la sua vedova mi ha cacciata di casa.

— Perché?

— Perché ero povera, le ero a carico e non mi poteva soffrire.

— Ma Reed lasciò figli, e dovete aver dei cugini. Sir George Lynn parlava ieri di un Reed di Gateshead, che era uno dei più grandi bricconi di Londra, e Ingram parlava pure di una Georgiana Reed che fu ammiratissima nella season, l'anno scorso o due anni fa, per la sua bellezza.

— John Reed è morto rovinato ed ha sciupato quasi tutto il patrimonio della famiglia, signore; si crede che siasi suicidato. La notizia scosse tanto la povera madre, che ha avuto un colpo di apoplessia.

— E quale sollievo potreste portarle, Jane? È una sciocchezza di far cento miglia per vedere una vecchia signora, che forse troverete morta; eppoi non avete detto che vi ha scacciata?

— Sì, signore, ma sono molti anni e le circostanze erano ben diverse; ora non potrei non appagare il suo desiderio.

— Quanto volete rimanere assente?

— Il meno possibile.

— Promettetemi di rimaner soltanto una settimana.

— Faccio meglio a non farvi questa promessa, perché potrei mancarvi.

— In ogni caso tornerete qui; sotto nessun pretesto non vi lascerete indurre, spero, a stabilirvi presso di lei.

— No certo; tornerò appena le cose andranno bene.

— E chi vi accompagnerà? Non vorrete fare cento miglia sola?

— No, signore, il cocchiere dei Reed è venuto a prendermi.

— È persona sicura?

— Sì, signore, è in casa Reed da dieci anni.

Il signor Rochester riflettè.

— Quando volete partire?

— Domattina presto, signore.

— Bene. Vi occorre del danaro, non potete viaggiare senza e non dovete averne molto. Io non vi ho ancora pagata da che siete qui. Quanto denaro possedete in tutto, Jane? — mi domandò sorridendo.

Gli mostrai la mia borsa, che non era pesante davvero.

— Cinque scellini, signore.

Egli la prese, se ne vuotò in mano il contenuto e parve contento di vedere che vi era così poco. Allora prese il portafoglio e mi offrì un biglietto di Banca di cinquanta sterline.

Non me ne doveva che quindici e io dissi che non avevo da cambiarlo.

— Non importa che lo cambiate, prendetelo, è il vostro salario.

Non volli accettare altro che quanto mi era dovuto.

Da prima voleva costringermi a prender tutto, poi rifletté e disse:

— Avete ragione; è meglio che non vi dia tutto; vi tratterreste forse due o tre mesi se aveste cinquanta sterline. Eccovene dieci, vi bastano?

— Sì, signore, ma me ne dovete ancora cinque.

— Tornate a prenderle, sono il vostro banchiere per quaranta sterline.

— Signor Rochester, vorrei parlarvi di un altro affare importante, giacché ne ho l'opportunità.

— Un affare importante? Sono curioso di udirlo.

— Mi avete voi stesso informata che fra poco avreste preso moglie.

— Sì, ebbene?

— In quel caso Adele andrà in pensione; sono sicura che anche voi lo riconoscerete necessario.

— Per allontanarla dal cammino di mia moglie che potrebbe diversamente camminare su di lei con troppa violenza. Vi è una certa giustezza in questo suggerimento, senza dubbio. Adele deve andare in pensione e voi, naturalmente, dovrete andare al.... al diavolo?

— Spero di no, signore, ma debbo trovarmi un altro posto.

Naturalmente! — esclamò con voce stridula contorcendo il viso in modo comico e fantastico. Mi fissò per alcuni istanti.

— E suppongo che impegnerete la vecchia signora Reed e le signorine di trovarvi un posto?

— No, signore, non sono in questi termini coi miei parenti e non chiederei loro mai un favore. Metterò un annunzio.

— Potreste andare sulle piramidi d'Egitto! — mormorò. — Al pericolo che correte non ci pensate? Vorrei avervi offerta una sola sterlina invece che dieci. Rendetemene nove, Jane, ne ho bisogno.

— Ed io pure, signore, — risposi, nascondendo la borsa.

— Piccola avara! — esclamò. — Mi ricusate un imprestito? Datemi cinque sterline, Jane!

— Neppure cinque scellini, signore, neppure cinque soldi.

— Fatemi vedere soltanto la borsa.

— No, signore, non mi fido di voi.

— Jane!

— Signore!

— Promettetemi una cosa.

— Vi prometterò soltanto quello che so di poter mantenere.

— Di non fare annunzi nei giornali, di affidare a me l'incarico di trovarvi una situazione; a suo tempo ve ne procurerò una.

— Lo farò con piacere, signore, se voi mi promettete che io e Adele saremo in salvo prima che la vostra futura sposa entri in casa.

— Benissimo! Benissimo! Ve ne dò parola. Dunque partite domani?

— Sì, signore, domattina.

— Verrete in sala stasera dopo pranzo?

— No, signore, debbo prepararmi per il viaggio.

Allora debbo dirvi addio per qualche tempo?

— Credo, signore.

— E come si suol praticare la cerimonia della separazione? Insegnatemelo, Jane, non la so.

— Si dice: "State bene" o un'altra frase qualunque.

— Ebbene, ditela.

— State bene, signor Rochester.

— E io che cosa devo dire?

— Lo stesso, se credete, signore.

— State bene, signorina Eyre; nient'altro?

— No.

— Mi pare un addio molto freddo e poco amichevole: vorrei altra cosa; una semplice aggiunta al rito consueto. Una stretta di mano, per esempio; ma no, non basta. Mi contenterò dunque di dirvi: "State bene, Jane!"

— È sufficiente; un cordiale augurio può essere espresso dal cuore anche con una sola parola.

— È vero, ma quella frase: "state bene" è fredda.

— Quanto rimarrà ancora con le spalle appoggiate alla porta? — pensavo. — Vorrei incominciare il baule.

La campana chiamò per il pranzo ed il signor Rochester uscì senza aggiunger sillaba.

Non lo vidi più durante il giorno e la mattina dopo partii prima che fosse alzato.

Giunsi a Gateshead alle cinque pomeridiane del primo maggio e mi fermai alla casa del portiere.

Era graziosa e linda; dalle finestre pendevano le tende di bucato, il pavimento era pulitissimo e il camino di ferro era lucido.

Bessie era seduta accanto al fuoco e allattava l'ultimo dei suoi bimbi; gli altri due si baloccavano in un cantuccio.

— Che Iddio vi benedica! Sapevo che sareste venuta, — esclamò la signora Leaven quando entrai.

— Sì, Bessie, — dissi dopo di averla baciata, — spero di non giungere troppo tardi. Come sta la signora Reed? È viva?

— Sì, vive, ma da ieri non è più in sé. Il medico dice che potrà tirar in lungo una settimana o due, ma non crede che possa guarire.

— Ha parlato più di me?

— Stamane ne ha parlato e bramava che giungeste; ma ora dorme, o almeno dieci minuti fa dormiva. Ella è generalmente immersa in una specie di letargia tutto il pomeriggio e si desta soltanto verso sera. Volete riposarvi qui per un'oretta e poi salirò con voi, signorina?

Roberto entrò in quel momento ed ella si alzò per dare al marito il ben tornato, posò il bimbo nella culla e mi pregò di levarmi il cappello e di prendere una tazza di tè, dicendomi che avevo il viso pallido e stanco. Fui contenta di accettare l'ospitalità di lei e quando mi tolse il mantello da viaggio, la lasciai fare, come soleva, quand'ero piccina.

I ricordi dell'infanzia mi assalirono allorché la vidi affaccendarsi intorno a me, per servirmi il tè nelle migliori tazze che avesse, per prepararmi i crostini imburrati e i biscotti, dando di tanto in tanto un lieve scappellotto al suo bambino maggiore, come soleva con me nei tempi passati.

Bessie aveva conservato l'impeto del carattere, l'andatura leggiera e lo sguardo buono.

Quando il tè fu pronto, volli accostarmi alla tavola, ma ella mi ordinò di non muovermi con l'antico tono imperioso e volle servirmelo accanto al fuoco, su un piccolo vassoio.

Così faceva tanti anni prima, quando mi portava nella sala dei bambini le ghiottonerie che aveva prese per me; le sorrisi e le obbedii.

Volle sapere se ero felice a Thornfield e come era la mia padrona.

Quando le dissi che non vi era altro che il padrone, mi domandò se era bello e se mi piaceva; le risposi che era piuttosto brutto, ma che era cortese e mi trattava bene e si mostrò contenta.

Poi le descrissi l'allegra compagnia che avevo lasciato alla villa ed ella ascoltò il mio racconto con vero interesse, perché era appunto il genere che le piaceva.

Parlando così un'ora passò presto. Bessie allora mi rese il cappello ed accompagnata da lei uscii per andare alla villa. Erano nove anni che mi aveva accompagnata per discendere quel viale, che ora risalivamo insieme.

Allora avevo il cuore inasprito e disperato, mi credevo scacciata e odiata.

Lo stesso tetto ospitale si presentava dinanzi a me, il mio avvenire era ancora incerto, il cuore era ancora addolorato, mi consideravo ancora una pellegrina sulla faccia della terra, ma avevo maggior fiducia in me stessa e mi sentivo meno oppressa.

Le antiche ferite erano risanate e la fiamma del risentimento era spenta.

Andate prima nella sala da pranzo, — mi disse Bessie precedendomi. — Debbono esservi le signorine.

Un momento dopo ero entrata. Dalla mattina che ero stata condotta davanti al signor Bockelhurst, nulla era stato cambiato; vidi davanti al caminetto lo stesso tappeto su cui avevo posato i piedi; nello scaffale credei riconoscere i due volumi del Viaggio di Gulliver e delle Notti Arabe. Gli oggetti inanimati erano gli stessi, ma sarebbe stato difficile di riconoscere gli esseri viventi.

Vidi dinanzi a me due signorine; una era quasi alta come Bianca Ingram, molto sottile, gialla e serena nel volto, aveva qualcosa di scettico. L'estrema semplicità del vestito nero, del colletto inamidato, dei capelli lisci, era aumentata da una espressione rigida.

Per tutto ornamento portava un rosario d'ebano, dal quale pendeva un crocifisso. Capii che doveva essere Elisa, benché quel viso lungo e scialbo somigliasse ben poco a quello che aveva prima.

L'altra era certo Georgiana, ma non la Georgiana, che avevo conosciuta, la piccola fata sottile e snella di undici anni.

Era una ragazza grossa in tutto lo splendore della bellezza, con lineamenti regolari, occhi azzurri languidi e capelli biondi ricciuti. Anche lei era vestita di nero, ma l'abito differiva essenzialmente nella forma da quello della sorella; era ampio, elegante e capriccioso, quanto l'altro aveva la forma puritana.

In ognuna delle due sorelle vi era uno dei tratti della madre, ma uno soltanto; la maggiore, magra e pallida aveva lo stesso sguardo della madre; la più giovane e fiorente ne aveva il mento e il contorno delle guance, addolciti però; eppure bastavano a darle un'espressione di durezza, benchè il resto fosse dolce e voluttuoso.

Quando entrai ambedue le ragazze si alzarono per salutarmi e mi rivolsero la parola, chiamandomi: "Signorina Eyre."

II saluto di Elisa fu breve e asciutto, non mi sorrise neppure e si sedè di nuovo, fissando il fuoco, come se mi avesse dimenticata.

Georgiana, dopo avermi domandato come stavo, mi rivolse altre domande sul mio viaggio, sul tempo e su altre cose comuni, con voce stanca.

Di tanto in tanto mi gettava uno sguardo, per esaminarmi da capo a piedi, passando dal mio cappello nero al mantello senza ornamento.

Le ragazze hanno un talento speciale per dimostrarvi che siete privi di qualsiasi attrattiva; lo sprezzo dello sguardo, la freddezza delle maniere, la voce stessa esprimono i loro sentimenti, senza che si compromettano pronunziando una impertinenza.

Ma quel sorriso di sprezzo, palese o nascosto, non mi faceva più lo stesso effetto di prima e nel trovarmi seduta fra le mie due cugine, mi meravigliai di vedere come sopportavo facilmente l'indifferenza di una e lo scherno dell'altra.

Elisa non poteva mortificarmi, Georgiana non riusciva a farmi uscir dai gangheri; avevo da pensare ad altro.

Le potenti commozioni provate da qualche tempo mi avevano sconvolta e avevo imparato a sopportare gioie e dolori molto più vivi di quelli che potevano procurarmi le signorine Reed.

Così rimasi insensibilissima accanto a loro.

— Come sta la signora Reed? — domandai, guardando tranquillamente Georgiana, che credè conveniente di alzar la testa, come se si fosse offesa di quella inattesa libertà che mi prendevo.

— La signora Reed? Ah! volete parlare di mamma; non credo che potrete vederla oggi, perché sta male.

— Se voleste salire ad avvertirla che sono giunta, vi sarei grata.

Georgiana si scosse e spalancò i grandi occhi azzurri:

— So che desidera molto di vedermi, — aggiunsi, — e non vorrei farla aspettare più di quanto è necessario.

— Mamma non vuole esser disturbata la sera, — osservò Elisa.

Poco dopo mi alzai e mi tolsi i guanti e il cappello, senza esservi invitata, poi dissi che sarei andata in cucina per domandare se la signora Reed voleva ricevermi quella sera.

Uscii e incontrando Bessie, le esposi il mio desiderio, poi presi le disposizioni necessarie per stabilirmi alla villa.

Se un anno prima fossi stata ricevuta in quel modo a Gateshead, ne sarei subito partita, perché l'arroganza allora m'intimidiva, ma ora mi accorsi che operando così, sarei stata pazza. Avevo fatto un viaggio di cento miglia per vedere mia zia e dovevo rimanere finché non fosse guarita o morta.

L'orgoglio e il disprezzo delle ragazze non dovevano importarmi. Così mi rivolsi alla donna che dirigeva la casa, le chiesi una camera, dicendo che mi sarei trattenuta una settimana o due e vi feci portare il baule. Sul pianerottolo incontrai Bessie.

— La signora è desta, — mi disse, — l'ho informata del vostro arrivo. Seguitemi, vedremo se vi riconosce.

Non avevo bisogno di essere guidata nella stanza, che mi era ben nota, dove ero stata chiamata così spesso per essere sgridata; passai dunque avanti a Bessie e aprii piano la porta.

Era già scuro e sulla tavola era stato posto un lume velato, che illuminava il letto a colonne, le cortine gialle, la toilette, la poltrona e il panchetto, dove mi ero dovuta inginocchiare tante volte per chiedere scusa di colpe che non avevo commesse.

Gettai lo sguardo in un angolo; sicura quasi di vedervi una sottile verga, che pareva aspettasse il momento di colpirmi il collo e le mani.

Mi avvicinai al letto, aprii le cortine chinandomi su un mucchio di guanciali.

Mi rammentavo bene il viso della signora Reed e cercai nel letto quella nota figura; rividi quegli occhi implacabili, quei sopraccigli arcuati, imperiosi e dispotici.

Quante volte nel fissarmi non avevano espresso odio e minaccia!

Contemplandoli mi tornavano alla mente i miei terrori, le mie tristezze di bimba.

E ora mi chinai e la baciai: ella mi guardò.

— È Jane Eyre? — disse.

— Sì, zia Reed; come state, cara zia!

Avevo giurato in altri tempi di non chiamarla più zia; ma ora parevami giusto di rompere quel giuramento.

Le avevo preso la mano, pendente dal letto, e se in quel momento avesse stretta affettuosamente la mia, sarei stata contenta.

Ma le nature fredde non si commuovono facilmente e le naturali antipatie non si sradicano a un tratto.

La signora Reed ritirò la mano e, allontanando la faccia da me, osservò che faceva caldo quella sera.

Ella mi fissò di nuovo, freddamente; da quello sguardo capii che i suoi sentimenti verso di me non erano cambiati e non cambierebbero facilmente.

Capii dai suoi occhi di sasso, inaccessibili alla tenerezza e alle lagrime, che era risoluta a considerarmi sempre come la peggiore delle creature, perché non avrebbe provato un generoso piacere nel credermi buona, ma soltanto un senso di mortificazione.

Da principio fui afflitta, poi offesa; finalmente volli dominare la sua natura e la sua volontà.

Le lagrime mi erano salite agli occhi come quando ero piccina, le ricacciai e accostando una seggiola al letto, mi curvai sul capezzale.

— Avete mandato a cercarmi, — dissi, — sono venuta ed è mia intenzione di rimanervi finché non starete meglio.

— Naturalmente! Avete veduto le mie figlie?

— Sì.

— Ebbene, dite loro che desidero che restiate finché non vi abbia detto qualcosa che ho nella mente; stasera è troppo tardi e provo difficoltà a concentrarmi. Ma c'era qualcosa che volevo dirvi, lasciatemi pensare....

Lo sguardo errante mi diceva che un dolore aveva fiaccata quella forte natura.

Si voltava agitata nel letto e voleva tirar su le coperte; sentendo che io mi appoggiava su quelle col gomito, disse con rabbia:

— Alzatevi! mi date noia reggendovi sulle coperte. Siete Jane Eyre?

— Sono Jane Eyre.

— Ho avuto tante pene per quella bambina, non si può credere. Che peso, che noie mi ha cagionato col suo carattere chiuso e colle sue violenze, con il continuo esame di ogni movimento che io faceva.

“Un giorno mi parlò come una pazza, o meglio come un diavolo; nessun bambino mi ha mai guardato né parlato in quel modo. Sono stata felice quando è andata a Lowood. Che sarà successo di lei? A Lowood scoppiò il tifo e tanti bambini morirono, ma non lei, eppure ho detto che era morta e lo desideravo tanto!

— Strano desiderio, signora Reed! Perché la odiate tanto?

— Ho sempre odiato sua madre, perché era l'unica sorella di mio marito, la sua grande preferita. Egli si mise in urto con la famiglia quando lei volle fare quel cattivo matrimonio e quando giunse la notizia della sua morte, la pianse tanto. Mandò a prendere la bambina, benché gli dicessi invece di metterla a balia. Dal giorno che vidi quella bambina esile e piagnucolosa, la odiai. La sentivo lamentare tutta la notte nella culla; non sapeva gridar forte come gli altri bimbi. Reed la compiangeva e la cullava e l'accarezzava come se fosse stata sua. Cercava anche di far amare dai nostri bimbi quella piccina stracciona, ma i bimbi non la potevano soffrire, e quando lo dimostravano, egli andava in collera. Nella sua ultima malattia, la voleva sempre accanto al letto e un'ora prima di morire, mi fece giurare di tener sempre Jane con me.

“Sarei stata più contenta di prender cura di una povera uscita da un ospizio.

“Ma Reed era debole, debole.

“John non somiglia a suo padre e mi fa piacere; John somiglia a’ miei fratelli; è un vero Gibson. Vorrei che non mi tormentasse più con le sue richieste di danaro!

“Non ho più nulla da dargli; siamo poveri; devo mandar via la metà della servitù e chiudere in parte la casa o lasciarla; che dolore! Due terzi delle rendite se ne vanno per pagare gl'interessi delle ipoteche. John giuoca orribilmente, e perde sempre, povero ragazzo! È’ abbattuto, ha uno sguardo spaventoso, quando lo vedo, mi vergogno di lui e ho paura.

Era agitatissima.

— Credo che farei meglio di andarmene, — dissi a Bessie che era dall'altra parte del letto.

— Forse sì, signorina. Però le accade spesso di parlare così la notte, la mattina è più calma.

Mi alzai.

— Aspettate! — esclamò la signora Reed, — ho un'altra cosa da dirvi; mi minaccia sempre di uccidermi o di suicidarsi, e io sogno di vederlo disteso con una larga ferita al petto o con la faccia gonfia e livida.

“Sono ridotta in cattivo stato, mi sento turbata; che cosa devo fare?

“Come procurargli denaro?

Bessie cercava di farle prendere un calmante; vi riuscì a stento.

La signora Reed si calmò e cadde in uno stato di assopimento, allora la lasciai.

Trascorsero più di dieci giorni senza che potessi parlarle di nuovo.

Passava dal delirio allo stato letargico e il medico proibiva che fosse eccitata.

Intanto io cercavo, per quanto era possibile, di venire in buoni rapporti con Elisa e con Georgiana.

Da prima erano freddissime: Elisa passava metà della giornata a leggere, a scrivere o a cucire e raramente mi rivolgeva la parola.

Georgiana parlava ore intere col suo canarino, e non si curava di me; io avevo stabilito di occuparmi e di divertirmi, perché avevo la cassetta da dipingere.

Con la matita e la carta mi sedevo accanto alla finestra e cercavo di ritrarre le scene che mi passavano nella mente come in un caleidoscopio; un braccio di mare, fra due scogli, la luna che sorgeva illuminando una barca, un gruppo di giunchi e di gladioli dal quale emergeva la testa,di una Najade incoronata di fiori di loto, uno stornello nel nido di un passerotto sotto una siepe di biancospino.

Un giorno mi misi a disegnare un volto, non sapevo quale, ma non m'importava; presi una matita dolce, feci un contorno e mi misi al lavoro. Disegnai una fronte larga e prominente, un mento quadrato.

Quella fronte richiedeva forti sopracciglia orizzontali, poi la matita tracciò un naso sottile, con le narici larghe, una bocca sottile, un mento forte, separato nel centro da una linea; mancavano ancora alcune ciocche di capelli ondeggianti sulle tempie e due folti baffi neri. Mancavano gli occhi!

Avevo aspettato all'ultimo a farli, perché richiedevano maggior attenzione.

Li feci belli e ben tagliati, con le ciglia lunghe e le pupille grandi e luminose.

— Va bene, — dissi guardando l'insieme, — ma non è ancora come deve essere; ci vuol più forza e più fiamma nello sguardo.

Calcai maggiormente le ombre, affinchè la luce fosse più viva; pochi tratti di matita completarono il lavoro.

Non m'importava nulla che le ragazze mi voltassero le spalle; avevo una faccia amica dinanzi a me.

Guardavo il ritratto e sorridevo. Ero assorta e contenta.

— È il ritratto di qualcuno che conoscete? — mi domandò Elisa, che si era accostata senza che me ne accorgessi. Risposi che era una testa di fantasia e la nascosi presto sotto gli altri disegni. Naturalmente mentivo, perché era il ritratto somigliantissimo del signor Rochester, ma che cosa doveva importare a lei o ad altri, eccetto che a me? Georgiana pure si avanzò per vederlo; gli altri disegni le piacquero di più; in quanto alla testa, disse che era brutta. Le due sorelle si meravigliarono della mia abilità nel disegno. Offrii loro di ritrarle e ognuna posò per uno studio a matita. Georgiana mi portò il suo album e vi dipinsi un acquerello. Vidi che riprese subito il suo buon umore e mi propose una passeggiata per i campi. Da due ore appena eravamo uscite, e già ci trovavamo in amichevole conversazione.

Ella mi aveva fatto l'onore di parlare della brillante season passata a Londra due anni prima, dell'ammirazione che vi aveva suscitata, delle attenzioni che vi aveva ricevute; alluse anche alla grande conquista che vi aveva fatta. Nel dopopranzo o durante la sera, fu anche più comunicativa; mi riferì diverse tenere conversazioni e alcune scene sentimentali; infine a mio totale benefizio improvvisò una narrazione di vita elegante.

Queste comunicazioni si rinnovavano ogni giorno, aggirandosi però sullo stesso argomento: lei, i suoi amori e le sue speranze.

Non parlava mai della malattia della madre, né della morte del fratello, né dello stato doloroso della sua famiglia.

La sua mente era piena di reminiscenze allegre e di aspirazioni verso nuovi piaceri.

Passava cinque minuti al giorno nella camera della madre, ma non più.

Elisa parlava sempre poco; forse non aveva tempo, perché non ho mai veduto nessuno più occupato di lei, ma sarebbe difficile enumerare quelle occupazioni e scoprirne il risultato.

Si alzava prestissimo e non so che cosa facesse prima di colazione, ma dopo essa aveva diviso il tempo in porzioni regolari e ogni ora era destinata a fare un compito.

Tre volte il giorno studiava un libricino di preghiere cattoliche.

Un giorno le domandai che cosa vi trovava di attraente. "La rubrica" mi rispose. Tre ore ricamava col filo d'oro un pezzo di stoffa rossa, quasi grande come un tappeto.

Seppi da lei che era destinata a coprire l'altare di una nuova chiesa costruita di recente nei dintorni.

Due ore le consacrava al suo diario, due altre a lavorar sola nell'arte e una a fare i conti. Pareva che non sentisse il desiderio di parlare né di veder gente; era felice a modo suo e nulla l'annoiava tanto quanto una circostanza qualsiasi che le impedisse di mantenere la regolarità delle sue occupazioni.

Una sera che era più comunicativa del solito, mi disse che la condotta di John e la rovina della famiglia, erano state per lei sorgenti di profonda afflizione.

Però aveva avuto cura di mettere al sicuro la sua dote, e aveva presa una risoluzione, e dopo la morte della madre, che assicurava non avrebbe potuto ristabilirsi, si sarebbe ritirata in un luogo, dove desiderava da tanto tempo di andare, e dove nulla turberebbe la puntualità delle sue occupazioni. Quel ritiro creerebbe una barriera fra lei e il mondo privato. Le chiesi se Georgiana l'avrebbe accompagnata.

— No, certo.

Georgiana e lei non avevano nulla di comune e non l'avevano mai avuto. Non voleva addossarsi il peso della sua società a nessun costo. Georgiana doveva seguir la propria via, e lei, Elisa, la sua.

Se Georgiana non era occupata a farmi confidenze, stava distesa su un sofà, lamentando la tristezza della casa, e a desiderare che la zia Gibson la invitasse a andar da lei in città. "Sarebbe meglio per me, — diceva, — che me ne andassi per un mese o due finché tutto non sarà finito." Non osavo domandarle che cosa volesse dire con quel "tutto sarà finito “, ma supponevo alludesse alla morte della madre e ai funerali. Elisa non si curava dei lamenti della sorella, più di quel che non si sarebbe curata di un indistinto mormorio. Un giorno però, mentre posava il libro dei conti e prendeva il ricamo, esclamò:

— Georgiana, un animale più vano e più stupido di voi, non ha certo avuto mai il diritto di ingombrare la terra. Non avevate nessun diritto di nascere, perché non fate nessun uso della vita.

"Invece di vivere in voi e per voi, come dovrebbe fare ogni creatura ragionevole, non cercate altro che di appoggiare la vostra debolezza su una creatura più forte, e se nessuna vuol addossarsi una creatura pesante, impotente o inutile, vi lagnate e dite che vi trascurano e vi maltrattano.

"La vita per voi deve essere una successione continua di piaceri, se no, dite che è una prigione. Volete essere ammirata, corteggiata, adulata, vi occorre la musica, il ballo, la società, se no vi sentite languire e morire.

"Perché non adottate un sistema che vi renda indipendente dalla volontà altrui?

"Prendete una giornata, fatene più parti, assegnate un lavoro a ciascuna di queste parti, impiegate ogni quarto d'ora, ogni minuto e giungerete alla fine della giornata senza accorgervene; non dovrete riconoscenza a nessuno per avervi aiutata a passare il tempo, non avrete chiesto a nessuno compagnia, conversazione o simpatia, e avrete vissuto come deve vivere ogni essere indipendente.

"Ascoltate questo consiglio, il primo e l'ultimo che vi darò, e allora, qualunque cosa accada, non avrete bisogno di alcuno. Se lo disprezzate, continuerete sempre a lagnarvi, a trascinare ovunque la vostra indolenza, a subire i risultati della vostra stupidaggine.

"Vi parlerò francamente; quello che sto per dirvi non lo ripeterò più, ma agirò in conseguenza.

"Dopo la morte di mia madre, non mi curerò più di voi, e il giorno in cui la bara sarà calata nei sotterranei di Gateshead voi ed io diverremo estranei fra noi, come se non ci fossimo mai conosciuti.

"Non crediate, perché il caso ci ha fatto nascere dagli stessi genitori, ch'io mi lasci incatenare neppure da un debolissimo legame!

"Ecco quello che vi dico: anche se tutta l'umanità sparisse dalla faccia del globo, eccettuate noi due, se rimanessimo sole sulla terra, vi abbandonerei nel vecchio mondo e andrei nel nuovo."

Così chiuse le labbra.

— Vi sareste potuta risparmiar la noia di questa dichiarazione, — rispose Georgiana. — Tutti sanno che siete la creatura più orrida e più egoista del mondo. Voi mi odiate e ne ho una prova nel tiro che mi avete fatto rispetto a lord Edwin Vire; non potevate assuefarvi al pensiero che sarei stata da più di voi, che avrei avuto un titolo e un posto nei circoli dove non potete mettere neppure il naso; così avete fatto da spia e da traditrice, rovinando ogni mia speranza.

Georgiana prese il fazzoletto e si soffiò il naso per un'ora.

Elisa rimase fredda, impassibile, assidua al lavoro.

Alcuni fanno poco conto dei sentimenti veri e generosi, ma qui vi erano due esseri, uno reso intollerabilmente aspro, l'altro scipito.

Il sentimento senza il criterio è una bevanda insipida, ma il criterio senza il sentimento è troppo amaro e troppo aspro perché l'uomo possa inghiottirlo.

Era una giornata umida e tempestosa; Georgiana si era addormentata sul sofà leggendo un romanzo, Elisa era andata ad assistere a una funzione nella nuova chiesa, perché in materia di religione era rigida osservante e il tempo cattivo non la tratteneva certo dal compiere ciò che credeva dovere religioso; con la pioggia o col sole andava sempre tre volte in chiesa la domenica, e negli altri giorni ogniqualvolta c'era una funzione.

Trovandomi così sola, ebbi allora l'idea di salire dalla povera donna, che era male assistita, perché la servitù non si dava cura di lei, e l'infermiera, non essendo sorvegliata, scappava ogni momento di camera.

Bessie era attenta, ma doveva occuparsi della sua famiglia, e non poteva star che poco tempo alla villa.

Quando entrai in camera, non v'era nessuno.

La malata stava tranquilla, come se fosse immersa nel letargo, con la testa affondata nei guanciali.

Il fuoco si spengeva e lo riattizzai, accomodai le lenzuola, guardai un momento colei che non poteva fissarmi, poi mi diressi verso la finestra.

La pioggia batteva forte contro i vetri e il vento soffiava impetuoso.

— Colei che giace qui, — pensai, — presto non si troverà più in mezzo alla furia degli elementi; questo spirito, che ora lotta con la materia, dove andrà, quando ne sarà liberato?

E ponderando il gran mistero, pensai a Elena Burns, richiamai alla mente le sue ultime parole, la sua fede, la sua dottrina sull'eguaglianza delle anime una volta liberate dal corpo; il mio pensiero ascoltava una voce, di cui mi ricordavo così bene, rivedevo quel volto pallido, agonizzante, divino; quello sguardo sublime, mentre, stesa sul letto di morte, ella bramava tornare nel seno del Padre Celeste. A un tratto una voce debole mormorò:

— Chi c'è?

Sapevo che la signora Reed non aveva parlato da diversi giorni; migliorava forse? Mi accostai a lei e dissi:

— Io, zia Reed.

— Chi, io? — rispose. — Chi siete?

Poi mi fissò con uno sguardo meravigliato, sgomento, ma non smarrito.

— Non vi conosco; dov'è Bessie?

— È nella sua casa, zia.

— Zia! — ripetè, — chi mi chiama zia? Voi non siete una Gibson; eppure vi conosco; questo viso, questi occhi, questa fronte mi sono familiari; voi somigliate.... ma voi somigliate a Jane Eyre!

Non risposi: avevo paura di farle male dicendole chi ero.

— Sì, — disse, — dubito d'ingannarmi; desideravo di vedere Jane Eyre, e mi figuro esista una somiglianza che non c'è; del resto, in otto anni deve esser cambiata.

L'assicurai dolcemente che ero proprio quella che credeva riconoscere e che bramava vedere. Le spiegai che il marito di Bessie era venuto a prendermi a Thornfield.

Sì, so che sono molto malata, — riprese dopo un certo tempo. — Poco fa ho voluto voltarmi e non mi sono potuta muovere. È meglio che mi liberi da un peso prima di morire. Nello stato in cui sono pare opprimente anche quello che pare leggiero quando si sta bene. C'è l'infermiera qui, oppure siete sola?

L'assicurai che ero sola.

— Ebbene, — disse, — vi ho nociuto due volte e ora me ne pento; la prima non tenendo la promessa fatta a mio marito di educarvi come i miei figli, l'altra.... — tacque. — Forse non ha molta importanza, — mormorò, — e poi posso guarire; che pena di umiliarsi dinanzi a lei!

Fece uno sforzo per cambiar posizione, ma non potè; i tratti di lei si alterarono esprimendo un dolore interno: forse qualche sensazione preannunziante l'ultima agonia.

— Andiamo, è necessario, — disse. — L'eternità mi sta davanti ed è meglio che glielo dica. Aprite la toilette, — aggiunse, — e datemi la lettera che vi troverete.

Le obbedii.

— Leggetela ora, — disse.

La lettera era breve e così concepita:

"Signora, vorreste aver la cortesia di mandarmi l'indirizzo di mia nipote, Jane Eyre, e di dirmi come sta?

"La mia intenzione è di scriver brevemente e di farla venire a Madera.

"La Provvidenza ha benedetto i miei sforzi; ho potuto mettere assieme qualcosa, e siccome non ho moglie né figli, voglio adottarla e lasciarle tutto alla mia morte.

"Sono, signora, ecc.,

John Eyre, Madera..,

La lettera portava la data di tre anni prima.

— Perché non ho saputo nulla di ciò? — domandai.

— Perché vi odiavo troppo per aiutarvi a conseguire la prosperità. Non potevo dimenticare la vostra condotta verso di me, Jane, il furore col quale vi siete una volta ribellata, il tono con cui diceste di odiarmi più d'ogni cosa al mondo, e il vostro sguardo che non aveva più nulla d'infantile, la vostra voce per dirmi che vi avevo trattata con crudeltà.

"E non potevo neppur dimenticare la sensazione che provai, quando alzandovi, mi lanciaste contro il veleno della vostra anima; mi spaventai come se un animale colpito da me, si fosse messo a guardarmi con occhi umani e con voce umana mi avesse maledetta. Portatemi da bere e sbrigatevi!

— Cara signora Reed, — le dissi offrendole il bicchiere, — non pensate più a quelle cose, cancellatele dalla mente; perdonatemi il linguaggio violento; ero una bimba allora; sono passati otto o nove anni da quel giorno.

Ella non badò a quello che dicevo; ma dopo aver bevuto, riprese:

— Vi dico che non potevo dimenticare e mi vendicai; non potevo ammettere che foste adottata da vostro zio né che viveste agiatamente. Gli scrissi dicendogli che mi doleva che i suoi disegni non potessero compiersi, ma che Jane Eyre era morta di tifo a Lowood! Ora fate quello che volete, scrivete per contraddire la mia asserzione, sbugiardatemi, dite tutto quello che vi piace.

"Credo che siate nata per il mio tormento; la mia ultima ora è amareggiata da una colpa, che senza di voi non avrei mai commessa.

— Se poteste non pensarci più, zia, e guardarmi con tenerezza e indulgenza!

— Avete una cattiva natura — mi disse — una natura che mi è stato impossibile di capire fino ad oggi. Come avete potuto esser paziente per nove anni ed accettare tutti i trattamenti, per lasciare esplodere al decimo la vostra violenza? Ecco quello che non ho mai capito.

— Non credo di esser cattiva, — ripresi, — posso esser violenta, ma non vendicativa; molte volte da piccina sarei stata felice di volervi bene, se lo aveste voluto, e ora desidero vivamente di riconciliarmi con voi; baciatemi, zia!

Avvicinai la guancia alle sue labbra, ma essa non volle toccarla.

Disse che l'opprimevo stando china sul letto, e di nuovo mi chiese da bere.

Quando la rimisi giù, perché l'avevo sollevata per farla bere, le tastai le mani e sentii che erano fredde ghiacciate.

Le dita, debolissime, fremettero al tocco delle mie, i suoi sguardi vitrei evitarono i miei occhi.

— Amatemi, allora, o odiatemi, se volete; in ogni caso vi perdono pienamente e liberamente. Implorate il perdono di Dio e state in pace.

Povera donna malata!

Era troppo tardi per lei per fare lo sforzo di cambiare il suo consueto modo di vedere; mi aveva sempre odiata in vita, doveva odiarmi morendo.

Era entrata l'infermiera, seguita da Bessie. Io rimasi mezz'ora sperando che la malata mi desse qualche segno di amicizia, ma non me ne diede alcuno.

Era ricaduta nel letargo e non riacquistò più conoscenza, e a mezzanotte morì; ma non ero presente per chiuderle gli occhi e non vi erano neppure le figlie.

La mattina dopo fummo avvertite che tutto era terminato.

Elisa ed io andammo a vederla; Georgiana si mise a singhiozzare e disse che non osava venir con noi.

Sarah Reed, un tempo robusta, attiva, rigida e calma, era stesa sul letto mortuario, i suoi occhi di bronzo erano coperti dalle fredde palpebre; la fronte e i lineamenti portavano tuttora l'impronta dell'anima inesorabile.

Quel corpo era per me cosa strana e solenne; vi gettai uno sguardo triste, ma non m'inspirava nessun dolce sentimento di speranza, di pietà o di rassegnazione.

Sentii un dolore acuto per le sue pene, non per la mia perdita, e un cupo terrore davanti alla morte contemplata in quella forma spaventosa.

Elisa guardò calma la madre, poi disse dopo averla contemplata:

— Con la sua costituzione avrebbe dovuto vivere molto più; i dolori l'hanno uccisa.

La bocca di Elisa si contrasse un momento per lo spasimo; poi uscì di camera ed io la seguii. Nessuna di noi aveva pianto.