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Jane Eyre.  Charlotte Brontë
Capitolo 11.
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Un nuovo capitolo in un romanzo è come un nuovo atto in una commedia.

Nel momento in cui si alza il sipario, figuratevi di aver davanti una camera dell'albergo Giorgio a Millcote.

Le mura sono coperte di una carta istoriata, il tappeto, i mobili, la guernizione del caminetto sono simili a quelli di tutti gli alberghi.

Infine vi sono dei quadri: Giura III, il principe di Galles e la morte di Wolf.

Tutto questo dovetti vederlo alla luce di una lampada sospesa al soffitto e di un eccellente fuoco, presso il quale mi sono seduta senza levarmi né mantello, né cappello, cercando di liberarmi dal freddo e dall'umido che mi hanno intirizzita dopo sedici ore di viaggio.

Lettori, benché sia comodamente seduta, non ho lo spirito tranquillo.

Credevo che qualcuno sarebbe venuto a ricevermi alla diligenza; speravo di sentir pronunziare il mio nome, di vedere una carrozza spedita per condurmi a Thornfield, invece non c'era nessuno.

Dovetti dunque farmi preparare una camera e aspettare.

Dopo mezz'ora non era ancora giunto nessuno; allora sonai.

— Vi è qui vicino un luogo che si chiama Thornfield? — domandai al cameriere che si presentò.

— Thornfield? non so, ma posso informarmene. Egli uscì e poco dopo ricomparve.

— Siete voi la signorina Eyre? — disse.

— Sì.

— Ebbene, vi è qualcuno che vi aspetta.

Mi alzai presto e scesi. Vidi allora alla luce di un fanale un uomo davanti alla porta, che guardava un cavallo attaccato a una carrozza.

— È quello il vostro bagaglio? — domandò bruscamente accennando il baule.

— Sì.

Lo collocò allora nella piccola carrozza, salii e gli chiesi quanto era distante Thornfield.

— Sei miglia circa.

— Quanto metteremo per giungervi?

— Un'ora e mezza.

Salì a cassetta e partimmo. Il cavallo camminava piano ed ebbi agio di riflettere.

— È probabile, — dicevo fra me, giudicando dalla semplicità della carrozza, — che la signora Fairfax sia una persona che non cerca di comparire; tanto meglio. Una volta sola in vita mia ho abitato in casa di ricchi ed ero tanto infelice. Vorrei sapere se sta sola o con la bambina. In questo caso, se è appena, appena cortese saprò farmi amare. Purché mi riesca! Quando entrai a Lowood feci questo proponimento, e mi portò fortuna. Domando a Dio che la signora Fairfax non sia una seconda Reed. In ogni modo, non sono obbligata a rimanere da lei; potrei trovarmi un altro posto.

Guardai fuori dallo sportello; Millcote era dietro a noi. A giudicare dal numero dei lumi, doveva essere una città importante.

Mi parve che fossimo in una specie di villaggio, perché vedevo molte case disseminate.

Il paese era diverso da quello di Lowood, più popolato, ma meno pittoresco, più animato, ma meno romantico.

La strada era scabrosa e la notte profonda. Il cocchiere lasciava che il cavallo andasse al passo, così rimanemmo due buone ore per via. Alla fine si volse e mi disse:

— Ora siamo poco distanti da Thornfield.

Guardai di nuovo dallo sportello. Passavamo davanti a una chiesa. Vidi disegnarsi sul cielo delle torri basse e larghe e sulla vetta di una collina una fila di lumi. Dieci minuti dopo il cocchiere scendeva per aprire due grandi porte, che si chiusero dietro a noi.

Salimmo lentamente una collina e giungemmo davanti alla casa.

Si vedevano brillare i lumi dietro la tenda di una finestra bifora; tutto il resto era nel buio.

La carrozza si fermò davanti alla parte centrale, che fu aperta da una donna di servizio; scesi ed entrai in casa.

— Di qui, signora, — mi disse la donna e fecemi traversare una stanza quadra, circondata da porte altissime, poi m'introdusse in una camera illuminata dal fuoco e dalle candele.

Rimasi abbacinata perché da più ore ero al buio. Quando potei vedere ciò che mi circondava, un quadro piacevole si presentò ai miei occhi.

Ero in una piccola stanza. Accanto al fuoco era collocata una tavola rotonda; su un seggiolone di forma antica, stava seduta la più graziosa e simpatica signora che si possa immaginare. Portava una berretta da vedova, un vestito di seta nera e un grembiule di mussolina bianca.

Così appunto mi ero figurata la signora Fairfax, ma non con quel dolce sguardo.

Era occupata a far la calza e un gattone le stava accoccolato ai piedi. Insomma nulla mancava a quel quadro ideale di benessere domestico.

Era impossibile desiderare per una nuova istitutrice una presentazione più rassicurante. Non vi era né quella pompa che opprime, né quella solennità che schiaccia.

Mentre entravo, la vecchia signora mi venne incontro con premura.

— Come state, mia cara? Ho paura che vi siate molto annoiata durante il viaggio; John guida così piano. Ma dovete aver freddo; avvicinatevi al fuoco.

— La signora Fairfax, credo: — dissi.

— Sì, infatti, sedetevi, ve ne prego.

Mi condusse al suo seggiolone, mi levò lo scialle e il cappello. Io la pregai di non darsi tanta pena.

— Non mi dà punto pena, — mi rispose, — ma le vostre mani sono gelate dal freddo. Leah, — aggiunse, — fate un poco di vino caldo e preparate qualche sandwichs; ecco la chiave della dispensa.

Cavò di tasca un grosso mazzo di chiavi e lo dette alla donna.

— Accostatevi dell'altro al fuoco, — continuò.

— Avete portato il baule, mia cara? Lo farò mettere in camera vostra. — disse, e uscì.

— Mi tratta come una visitatrice, — pensai.

Mi aspettavo così poco quell'accoglienza, che ne rimasi sbalordita, ma non volli troppo presto rallegrarmi.

Ella ritornò poco dopo, e quando Leah portò il vassoio, la signora tolse da sé la calza e i libri dalla tavola, per offrirmi i rinfreschi.

Ero confusa da tante attenzioni che mi venivano prodigate da un superiore, ma siccome pareva che ella non facesse nulla di straordinario, pensai che era meglio accogliere tranquillamente quelle cortesie.

— Avrò il piacere di vedere stasera la signorina Fairfax? — le domandai.

— Che cosa dite, mia cara! sono un poco sorda.

Ripetei la domanda più distintamente.

— La signorina Fairfax? Volete dire la signorina Varens. Varens si chiama la vostra futura alunna.

— Non è dunque vostra figlia?

— No, non ho famiglia.

Stavo per domandarle in quali rapporti era con la signorina Varens, quando mi rammentai che non stava bene di far tante interrogazioni.

— Sono contenta, — mi disse sedendosi di fronte a me e prendendo il gatto in grembo, — sono contenta che siate giunta. Sarà una consolazione di avere una compagna. Qui si sta bene sempre; Thornfield è una vecchia villa, un po' trascurata ora, ma sempre rispettabile.

In inverno, nondimeno, ci si sentirebbe tristi anche nel più bell'appartamento d'una città quando si è sola. Dico sola; Leah è certamente una buona ragazza; John e sua moglie sono anche brava gente, ma sono tutte persone di servizio e non si possono trattare da pari a pari, bisogna tenerle a una certa distanza se non si vuole perdere la propria autorità. L’inverno scorso, che è stato un duro inverno, se vi ricordate, e che quando non nevicava, pioveva o tirava vento, nessuno, tranne il boscaiuolo e il postino, è venuto al castello, dal mese di novembre al mese di febbraio; e davvero ero divenuta triste restando una sera come l'altra sempre sola. Leah mi leggeva qualche volta, ma io credo che la povera ragazza preferisse di più lavorare; trovava il compito troppo duro.

In primavera e in estate le cose vanno meglio; il sole e le lunghe giornate portano un cambiamento, poi al principio dell'autunno è giunta la piccola Adele Varens con la sua balia: una bambina mette un po' di vita in una casa; e ora voi siete qui ed io diverrò certo allegra.

Il mio cuore si commosse realmente sentendo così parlare l'eccellente signora, e avvicinai la mia seggiola alla sua e le espressi il sincero desiderio, che avevo, di essere per lei una compagna tanto piacevole quanto lei sperava.

— Ma non voglio trattenervi più questa sera, — disse ella, — è quasi mezzanotte, voi avete viaggiato tutto il giorno e dovete esser certo stanca. Se vi siete bene riscaldata i piedi, vi condurrò nella vostra stanza: vi ho preparata una stanza vicino alla mia; essa è molto piccina, ma ho pensato che vi ci troverete meglio che nelle grandi stanze sul davanti; i mobili certo vi sono migliori, ma esse sono così tristi e solitarie che io non ci dormirei.

La ringraziai della scelta e, siccome ero davvero stanca del viaggio, mi mostrai molto desiderosa di ritirarmi.

Ella prese il candeliere e io la seguii fuori della stanza.

Prima andò a vedere se la porta della sala era chiusa; tolta che ebbe la chiave dalla serratura si diresse verso le scale.

Gli scalini e la balaustra erano di quercia; la finestra era alta e con un'inferriata l'una e l'altra, e il lungo corridoio, sul quale si aprivano le camere, aveva più l'aspetto di chiesa che di villa.

Un'aria umida e fredda come quella di una cantina si respirava nella scala e nella galleria, ci si sentiva soli e abbandonati; e io fui contenta quando finalmente entrai nella mia stanza da letto, e che trovai piccina ma ammobiliata in stile moderno.

Quando la signora Fairfax mi ebbe gentilmente augurato la buona notte, e che ebbi chiuso l'uscio, guardai intorno a me; presto l'impressione che mi avevano prodotta quella immensa sala vuota, quella scura e spaziosa scala, e quel lungo e freddo corridoio, fu cancellata dall'aspetto più allegro della mia cameretta.

Mi rammentai che dopo una giornata di fatica per il corpo e di ansietà per lo spirito, ero finalmente al sicuro, e col cuore pieno di gratitudine m'inginocchiai accanto al letto e resi grazie a chi erano dovute, chiedendo a Dio di rendermi degna della bontà che mi dimostravano prima che l'avessi meritata.

Come mi parve gaia la mia camera, quando il sole, brillando attraverso le tende turchine della finestra, mi fece scorgere le pareti coperte di carta a fiori e un tappeto steso sul pavimento!

Non potei a meno di paragonare quella camera con l'altra di Lowood con le assi per terra, e i muri anneriti.

Le cose esterne colpiscono vivamente in gioventù.

Pensai che una lieta fase della vita stava per incominciare per me, nella quale vi sarebbero stati forse dolori, ma anche gioie; non posso dire che cosa sperassi, ma certo qualcosa di felice in un tempo se non prossimo, almeno lontano.

Mi alzai e mi vestii con cura; non possedevo nulla di bello, ma avevo una grande tendenza per la pulizia.

Non ero nemica dell'apparenza e neppure incurante dell'impressione che producevo; al contrario desideravo di piacere per quanto me lo permetteva la mia mancanza di bellezza.

Qualche volta mi dispiaceva di non esser più graziosa; sentivo che era penoso di esser così piccina, così pallida, di avere i tratti così irregolari e marcati.

Perché quel desiderio e quei rimpianti? Non me ne rendevo conto neppure io, eppure aveva una ragione logica e naturale.

Però quando mi ebbi lisciati bene i capelli e mi fui messa il vestito nero, che non aveva il merito di esser fatto bene, e mi fui accomodata la sciarpa bianca parvemi di esser degna di presentarmi alla signora Fairfax e alla mia nuova alunna, senza che ispirassi loro antipatia.

Traversai il lungo corridoio col pavimento coperto di stuoie, scesi la lucente scala di quercia, e giunsi nella sala, ove mi fermai a guardare i quadri che ornavano le pareti (uno rappresentava un brutto vecchio con la corazza e un altro una signora incipriata con un vezzo di perle), un lampadario di bronzo e un grande orologio in una custodia di quercia intagliata e che il tempo aveva resa nera come ebano.

Tutto quello mi pareva imponente, ma bisogna ricordarsi che non ero assuefatta al lusso.

La porta a cristalli era aperta e ne profittai per uscire.

Era una bella mattinata d'autunno; il sole brillava senza nubi sui boschetti ingialliti e sui campi ancor verdi.

Mi spinsi nel prato guardando la facciata della casa, la quale senza esser vasta era spaziosa, aveva tre piani.

Pareva piuttosto l'abitazione di un possidente di campagna, che la villa di un signore, però nella sua irregolarità aveva qualcosa di pittoresco. In distanza si vedevano alcune colline meno alte di quelle di Lowood e che non avevano come quelle l'aspetto di barriere che mi separassero dal mondo esterno, ma dolci e solitarie abbastanza per fare di Thornfield una specie di eremo. Sul versante di una di quelle colline vi era un paesello colla sua chiesa vicina alla villa e se ne scorgeva, su un monticello, la vecchia torre.

Io godeva di quello spettacolo calmo, dall'aria pura, e guardava la casa pensando com'era grande, per una sola persona come la signora Fairfax, quando questa comparve sulla porta.

— Come? già fuori? — mi disse. — Vedo che siete mattiniera.

Mi accostai ed ella mi abbracciò e mi stese la mano.

— Vi piace Thornfield?

Le risposi che mi piaceva immensamente.

— Sì, — diss'ella, — è un bel luogo, ma perderà molto se il signor Rochester non si risolve ad abitarlo o a farvi visite più frequenti. Ha delle terre e le case grandi richiedono la presenza del proprietario.

— Chi è il signor Rochester?

— Il padrone di Thornfield, — mi rispose tranquillamente. — Non sapevate che si chiamava Rochester?

— No, certo; non ho mai sentito parlare di lui.

La buona signora pareva credere che tutti conoscessero il signor Rochester.

— Credevo che Thornfield vi appartenesse.

— A me! Che Dio vi benedica, figlia mia; che idea! a me! Sono soltanto la governante. È vero che dal lato di sua madre sono parente lontana del signor Rochester, o almeno mio marito era parente. Mio marito era pastore e aveva il benefizio di Hay, quel villaggio che vedete là sul versante della collina, e quella chiesa era sua. La madre del signor Rochester era una Fairfax, cugina in secondo grado di mio marito; ma io non ho mai cercato di trar partito da questa parentela; essa non esiste per me e mi considero come una governante qualsiasi. Il mio padrone è sempre cortese con me e non chiedo altro.

— E la bambina, la mia alunna?

— È la pupilla del signor Rochester. Mi dette incombenza di trovare per lei un'istitutrice. Credo che voglia farla educare qui.... Eccola con la sua bambinaia.

Così l'enigma era spiegato. Quella piccola vedova, affidabile e buona, era non una gran signora, ma una dipendente come me.

Non le volevo meno bene, anzi ero anche più contenta.

L'eguaglianza fra noi esisteva di fatto e non era il risultato della condiscendenza da parte sua.

Mentre riflettevo giunse correndo una bimba di sette o otto anni, delicata, pallida, con i lineamenti sottili e abbondanti capelli biondi ricciuti.

— Buongiorno, signorina Adele, — disse la signora Fairfax. — Venite a salutare la vostra nuova istitutrice, che v'insegnerà tante belle cose.

La bimba si avvicinò e domandò in francese alla bambinaia se ero la governante.

— Sono straniere? — domandai meravigliata.

— La bambinaia è francese e anche Adele è nata sul continente. Ora è qui da sei mesi. Quando giunse non sapeva una parola d'inglese; ora comincia a impararlo; ma io non la capisco, perché confonde le due lingue.

Per fortuna io aveva avuto una maestra francese e aveva cercato sempre di far pratica con la signora Pierrot, così era sicura di cavarmela con la signorina Adele. La quale si avvicinò a me e mi dette la mano.

Nel condurla a colazione le rivolsi alcune parole nella sua lingua, alle quali rispose brevemente, ma dopo, a tavola, mi fissò con i suoi occhietti castani e incominciò a ciarlare.

— Oh! come son contenta, — esclamò in francese, — che voi parliate bene la mia lingua come il signor Rochester. Potrò almeno parlar con voi come parlo con lui, e Sofia anche potrà parlare. Nessuno la capiva. Sofia è la mia bambinaia; ha traversato il mare con me su un grosso bastimento dove c'era un camino che fumava, fumava. Mi sentivo male e anche Sofia, anche il signor Rochester. Io ero sopra un lettino, largo come un sedile e sono quasi caduta. Ah! signorina, come vi chiamate?

— Jane Eyre.

— Non lo so dire. Ebbene, il bastimento si fermò la mattina, prima che il sole fosse alzato, in una grande grande città, nera nera, tutta coperta di fumo. Non somigliava punto alla città che avevo lasciata. Il signor Rochester mi prese in collo e mi fece traversare un piccolo ponte per andare a terra. Poi salimmo in carrozza per andare a una bella casa, tanto grande, dove restammo una settimana. Sofia e io si andava a passeggiare in una gran piazza piena d'alberi. C'erano tanti bimbi e una vasca coperta d'uccelli. Io gettavo agli uccelli le molliche di pane.

— La potete capire quando parla così presto? — mi domandò la signora Fairfax.

La capivo benissimo, perché ero assuefatta al chiacchierio della signora Pierrot.

— Vorrei, — continuò la buona signora, — che le faceste qualche domanda sui suoi genitori, per vedere se se ne rammenta.

— Adele, — le dissi, — con chi stavate in quella graziosa città di cui avete parlato?

— Sono stata molto tempo con la mamma; ma poi è partita per la Virginia. Mamma m'insegnava a ballare, a cantare e dir poesie. Tanti bei signori e tante belle signore venivano da lei, e allora ballavo e mamma mi metteva sulle loro ginocchia e mi faceva cantare. Mi divertivo tanto a cantare: volete sentirmi?

E siccome aveva terminato di mangiare, glielo permisi.

Scese dalla seggiola e venne a mettermisi sulle ginocchia; poi allungò le mani, gettò indietro i ricci e alzò gli occhi al soffitto, come se stesse per intonare un'aria d'opera.

Si trattava di una donna abbandonata, la quale, dopo essersi desolata per la perfidia dell'amante, chiama l'orgoglio in suo aiuto.

Dice alle donne di coprirla dei più ricchi gioielli, delle vesti più belle, perché ha preso la risoluzione di andare quella notte a un ballo ove deve incontrare il suo amante, per provargli, con la sua allegria, quanto poco si affligge per l'infedeltà.

L'argomento era stranamente scelto per una bambina, ma io supposi che l'originalità stava appunto nell'udire in bocca di una creaturina accenti d'amore e di gelosia.

Ma il cattivo gusto era, in quel modo, più che evidente.

Adele aveva cantato la romanza con giusto tono e con l'ingenuità propria della sua età.

Quando ebbe terminato, scese, e mi disse che mi avrebbe recitato una poesia, e, scegliendo l'atteggiamento, incominciò a recitare "La Lega dei topi" di Lafontaine.

Declamò quella favola con enfasi, badando alla punteggiatura, e la flessibilità della voce e la giustezza del gesto rivelavano l'abilità del maestro.

— È la mamma che vi ha insegnato quella favola? — le domandai.

Mi rispose di sì e mi fece notare i punti dove le faceva alzare la voce, e quindi mi domandò se voleva che ballassi; le risposi che bastava, le domandai con chi era restata dopo la partenza della sua mamma.

— Con la signora Federigo e col marito; aveva cura di me, ma non è mia parente. Credo che sia povera, perché non ha una casa tanto bella come quella della mamma, Ma ci sono stata poco, perché il signor Rochester mi ha domandato se volevo venire in Inghilterra e gli ho risposto di sì; conosco il signor Rochester da molto tempo ed è stato sempre buono con me; mi ha dato belle bambole e dei balocchi; ma non ha mantenuto la sua promessa, perché, dopo avermi accompagnata qui, è partito subito, e non lo vedo mai.

Dopo la colazione ci ritirammo nella biblioteca, dove, secondo gli ordini del signor Rochester, dovevo dar le lezioni a Adele.

Tutti gli armadi dei libri erano chiusi, meno uno che conteneva opere elementari, romanze, alcuni volumi di letteratura.

Aveva supposto che questo dovesse bastare a una istitutrice.

Da un lato vi era un pianoforte nuovo e di eccellente fabbrica, due cavalletti e le sfere.

Adele era un'alunna docile, ma era difficile di fermarne l'attenzione.

Non era assuefatta ad occupazioni regolari e credei inutile di trattenerla troppo in principio.

Così, dopo averle parlato a lungo e averle dato alcune righe da imparare, le permisi di tornare dalla bambinaia, e salii per prendere le matite con l'intenzione di disegnare fino all'ora di pranzo.

— La lezione della mattina è terminata? — mi domandò la signora Fairfax da una stanza di cui la porta era aperta.

Vi entrai, e vidi allora un salotto magnifico con un grande tappeto turco. I mobili e le tende erano rosse e le pareti rivestite di noce, e le sculture del soffitto erano degne di una dimora signorile.

La signora Fairfax spolverava due vasi di porfido orientale, posati sulla credenza.

— Che bella stanza! — esclamai, guardando intorno.

— È la sala da pranzo; ho aperto la finestra per farvi entrare un po' d'aria. Le stanze disabitate sono umide come cantine; nel salotto c'è un forte odore di muffa.

Mi accennò un'area corrispondente alla finestra, chiusa da una portiera pure rossa, che era sollevata.

Salii due gradini e vidi una sala che, per i miei occhi di novizia, era un vero incanto, eppure era soltanto un grazioso salotto, con uno più piccolo accanto.

Tutti e due avevano tappeti bianchi, sui quali pareva che fossero state sparse ghirlande di rosa. I soffitti erano ornati di grappoli d'uva, e di foglie di vite, di una bianchezza nivea, che faceva contrasto con i mobili rossi.

Vasi scintillanti di Boemia, di un rosso vermiglio, facevano risaltare il marmo del caminetto; fra le finestre erano collocati grandi specchi, nei quali si rifletteva quest'insieme di neve e di fuoco.

— Come tenete in ordine queste stanze, signora Fairfax! I mobili non sono coperti, eppure non c'è polvere. Se non fosse per l'umidità, si crederebbero abitate.

— Signorina mia, benché le visite del signor Rochester sieno rare, giungono però sempre inattese; quando torna non gli piace di trovare i mobili coperti, né di veder la gente affaccendata, per questo cerco di tener sempre in ordine la casa.

— È forse esigente e tirannico il signor Rochester?

— No, ma ha i gusti e le consuetudini di un signore e vuole che così sia tenuta la sua casa.

— Gli volete bene? È generalmente amato?

— Oh, sì! la sua famiglia è sempre stata rispettata. Quasi tutto il territorio che scorgete di qui, è sempre appartenuto ai Rochester da tempo immemorabile.

— Ma voi, personalmente, lo amate? È amato come individuo?

— Non ho nessuna ragione per non amarlo, e credo che i suoi affittuari lo considerino giusto e generoso, ma non è mai rimasto molto in mezzo a loro.

— Non ha nulla di saliente? Insomma, com'è di carattere?

— Il suo carattere è irreprensibile, a quanto mi pare. Può essere un po' strano; ha molto viaggiato e veduto tante cose, e sono convinta che sia molto istruito, ma non ho parlato mai a lungo con lui.

— Che cos'ha di strano?

— Non so, non è facile a spiegarsi; nulla che colpisca a prima vista, ma si sente da quello che dice; non si è mai sicuri se parli da vero o per burla, se è contento o no. Infine, non lo capisco bene, ma è un buonissimo padrone.

Ecco tutto ciò che potei cavare dalla signora Fairfax rispetto al suo e mio padrone.

Vi è certa gente che pare non creda si possa osservare e studiare un carattere.

La buona signora era di quella categoria. Per lei il signor Rochester era il signor Rochester e nient'altro.

Ella mi propose di visitare la casa, e io ebbi agio di ammirare l'ordine che regnava ovunque.

Le stanze, sulla facciata specialmente, mi parvero belle; alcune stanze del terzo piano avevano un carattere antico.

Si vedeva che lassù erano rilegati i mobili che man mano uscivano di moda, i cafoni di quercia e di noce, i bei letti antichi, le sedie dall'alta spalliera, coperte di ricami sbiaditi. Tutto questo dava al terzo piano di Thornfield l’aspetto di un reliquiario di vecchi ricordi.

— Qui dorme la servitù? — domandai.

— No, occupano il quartiere sul di dietro della casa. Qui non ci dorme nessuno, e, se — ci fossero gli spiriti, mi pare che verrebbero in queste stanze.

— Non ci sono dunque spiriti?

— No, per quanto io sappia, — rispose la signora, sorridendo.

— Neppure nelle tradizioni?

— Non credo, eppure si vuole che i Rochester sieno stati violenti, ma ora rimangono in pace nelle tombe.

— Sì, dopo la febbre della vita, dormono tranquilli, — mormorai. — Ma dove andate, signora?

— Sulla terrazza. Volete godere della veduta del paese, di lassù?

Una scala stretta conduceva alle soffitte, e da queste, con una scaletta a mano, che finiva con una botola, si andava sui tetti.

Era al livello dei nidi delle cornacchie.

Appoggiata al parapetto, mi misi ad esaminare il terreno circostante, il prato verde intorno alla casa, i campi, il bosco triste e folto, tagliato da un viale coperto di musco, la chiesa, le porte, la via, le tranquille colline, tutto quel tratto di paese, che pareva riposasse sotto il sole autunnale.

In quello spettacolo non vi era nulla di meraviglioso, ma esso aveva la potenza di farsi ammirare.

Quando scendemmo, la signora Fairfax rimase a dietro per chiudere la botola, e io, a tastoni, trovai la porta delle soffitte e discesi la scala buia, trattenendomi dopo un poco nel corridoio del terzo piano, che divideva le stanze davanti da quelle del lato opposto.

Era stretto, basso e oscuro, perché non aveva altro che una finestra per rischiararlo.

Vedendo quelle due file di porte scure e chiuse, veniva fatto di pensare al castello di Barbablù.

Nel momento in cui passavo, uno scoppio di risa mi ferì l'orecchio: era un riso strano, squillante, ma che non manifestava punto la gioia.

Mi fermai e il riso cessò, poi ricominciò più forte, più rumoroso.

— Signora Fairfax! — esclamai, perché in quel momento ella scendeva la scala. — — Avete sentito quella risata? Di dove può venire?

— Sarà stata una delle serve; forse é Grace Poole.

— L'avete sentita? — chiesi di nuovo.

— Sì, e la sento spesso. Ella cuce in una di queste stanze. Molte volte Leah è con lei, e quando sono insieme fanno tanto rumore.

— La risata si ripeto e terminò con uno strano mormorio.

— Grace! — esclamò la signora.

Non mi aspettavo di veder comparire nessuno, perché quel riso era tragico e soprannaturale e non ne avevo sentito mai uno compagno.

Per fortuna era giorno, e nessuna delle circostanze indispensabili all'apparizione degli spiriti aveva accompagnato quel rumore; se no, un terrore superstizioso si sarebbe impadronito di me. Vidi aprire una porta e uscirne una donna di servizio.

Essa poteva avere da trenta a quarant'anni, ed era robusta, rossa di capelli e brutta di volto.

— Sento troppo rumore, Grace. — disse la signora. — Rammentatevi gli ordini avuti.

Grace salutò e senza rispondere tornò nella stanza.

— È una donna che teniamo per cucire e per aiutare Leah, — continuò la vedova. — Non è certo senza difetti, ma lavora bene. A proposito, che cosa avete fatto con la vostra alunna, stamane?

La conversazione posta su Adele continuò mentre scendevamo nelle stanze terrene. La bimba ci venne incontro dicendoci:

— Signore, la minestra è in tavola. — Poi soggiunse: — Io ho tanto appetito.

Il desinare ci aspettava nel salotto della signora Fairfax.